La
mia infanzia è stata avvolta dai colori. Avevo dieci anni, in quel giorno di
aprile, quando scese dalle montagne il rosso delle bandiere e il verde-nero-giallo
opaco delle divise mimetizzate dei partigiani.
Il
verde prato della jeep (Pino Pascali) di un soldato americano è l'altra cromia
che mi accompagna da quel giorno santo in cui mio padre strappò la propria
carta di identità, necessariamente falsa (Christian Boltansky). La mia senilità
la trascorro con tranquillità. Quella del credente imperterrito in un'arte come
coraggiosa resistenza. A cosa? Ad una creatività supina alle regole di regime.
Lo
spazio è infinito. Lo si può interrompere con un canto o rappresentare tramite
un segno-colore che illustri l'oltre. Non l'altrove. Non poniamo paletti
all'impossibile.
Quando
i colori scesero dalla montagna e cacciarono il segno della morte, nacque
un'opera collettiva che si perpetua da quasi sei decenni. Si rinnova. Si
trasmette. Non è sogno. Non è rituale. E' l'arma della coscienza collettiva
che diviene forma, che disegna spazi ed archetipi.
Quando
sono scesi dalla montagna con i loro fazzoletti rossi, verdi e blu, cantavano e
disegnavano l'aria ed uccidevano le ombre.
Perchè
l'arte nostra libera, che sta in terra, porta il numero venticinque della loro e
della nostra primavera.
PAOLO
LEVI
11/04/00